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Gachi Boy: I’m a wrestler, but that’s ok

ConSequenze

[img_assist|nid=13114|title=|desc=|link=none|align=left|width=130|height=130]UDINE - Chi non ha assistito al prodigio potrebbe chiedersi come sia possibile che tra la corposa e interessante selezione di quest’anno abbia proprio vinto un film sul futile wrestling, show (anzi no, sport; anzi no, circo) peraltro bandito dalla nostra bigotta tv generalista come strumento demoniaco.

Per rispondere bisogna superare un radicato pregiudizio: un film che parla di sport non necessariamente è un film “sportivo”, e quindi lieve, bidimensionale, solo per addetti. Gachi Boy ci spiazza per due ore con continui cambi di registro, facendosi emblema di uno dei pregi maggiori delle pellicole d’Oriente (che spesso ma non sempre bilancia il difetto dei 100 finali, letali per lo spettatore europeo): la coscienza che una storia non è un blocco unico, non è ascrivibile per tutta la sua estensione ad un solo genere. Come nella vita commedia e tragedia sono vicinissime, in continua e repentina alternanza, così un film che intende parlare della vita di un uomo in modo realistico è giusto assuma varie forme secondo necessità, per meritarsi il coinvolgimento emotivo del pubblico.

L’opera del 27enne Norihiro inizia dunque come una commedia demenziale, con scene di wrestling palesemente fasulle, strette in primi piani che svelano il trucco aumentando l’effetto comico. Ma dalla successiva introduzione del suo protagonista Igarashi inizia a seminare indizi, apparentemente superficiali: perché il ragazzo scatta in continuazione foto a sè e a chi gli sta attorno? E perché lui, brillante studente di legge, si iscrive ad una sgangherata palestra di lottatori universitari? Poi, la tragica rivelazione: il neo-wrestler, che si presenta sul ring con tutina verde simil-ramarro, ha perso in un incidente stradale la[img_assist|nid=13115|title=|desc=|link=none|align=right|width=438|height=640] memoria breve. Ricorda tutto prima del trauma, ma da quel giorno non riesce ad assimilare niente di nuovo. E ogni mattina si sveglia nella completa ignoranza di cosa abbia fatto nelle 24 ore precedenti. Ecco il perché delle foto e del fitto diario, ed ecco la meta di Igarashi: non trovare un modo per “ricordare” e memorizzare la sua attuale vita (come accadeva in 50 volte il primo bacio a Drew Berrymore), quello lo sa già fare da inizio film; ora per lui si tratta di riuscire a vivere un’esistenza il più libera e normale possibile, senza sentirsi inutile.

I momenti di commozione evitano la retorica e stuzzicano la sensibilità dello spettatore che si immedesima nell’eroe interpretato dal bravo Sato Ryuta: come la dichiarazione d’amore, ripetuta per quattro volte alla ragazza che per quattro volte lo rifiuta prima di scoppiare in un pianto estenuato; come il climax finale, che culmina nella battaglia conclusiva sul ring tra Igarashi e due palestrati professionisti. Che lo massacrano, che lui massacra. Ma il Last Man Standing alla fine sarà lui: a pezzi ma sorridente, in posa da combattimento, la sua battaglia l’ha vinta. Anche se il giorno seguente ricorderà poco o nulla dell’accaduto, anche se dovrà combattere da zero nuovi ostacoli apparentemente insormontabili.

Silenzio. Lacrime in sala. Una strana sensazione generale di coraggio e di fierezza avvolge l’aria. Ora siamo tutti pronti a superare a muso duro le nostre quotidiane montagne da scalare. No, questo non è solo un film sul wrestling.