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Il sorriso di Dafne, coraggioso e tenero testo di Vittorio Franceschi

Sipario

[img_assist|nid=10948|title=|desc=|link=none|align=left|width=130|height=130]UDINE - Vittorio Franceschi è un intellettuale intenso e discreto, tra i migliori autori-attori che calcano le scene teatrali italiane. Senza timore di cadere nella piaggeria, un grande! Difficile da riassumere il suo fitto e vario percorso.

Dopo le prime esperienze di teatro-cabaret all’inizio degli anni ’60, ha lavorato a lungo allo Stabile di Trieste. Nel 1968 con Dario Fo e Franca Rame è tra i fondatori di Nuova Scena, associazione che darà vita a un circuito teatrale alternativo, primo passo di quel decentramento teatrale che da lì a poco interesserà la maggior parte delle regioni italiane.
Nel 1970 Dario Fo e Franca Rame fondano La Comune e Vittorio Franceschi resta alla guida di Nuova Scena fino al 1981, trasferendone la sede da Milano a Bologna e trasformandola in cooperativa. La sua ormai lunga carriera si intreccia anche con il nostro territorio. A Udine c’è ancora qualcuno che si ricorda della mitica serata del dicembre 1970 allo Zanon, unico spazio teatrale allora, strapieno in modo inverosimile, quando fu presentato Diario di classe, un testo sui problemi della scuola dell’obbligo, a cui avevano collaborato anche alcuni friulani come Bruno Pischiutta, Marcello Terranova e Riccardo Toffoletti. Si trattava di un teatro politico appassionante, che mordeva nella realtà e scuoteva le coscienze di un pubblico che quella volta scommetteva su un futuro migliore.

Oggi, a 37 anni di distanza Vittorio Franceschi scrive e interpreta Il sorriso di Dafne e tutto è cambiato: dal clima sociale e politico al pubblico, fino alla sala teatrale che ormai è presente anche in un paesino come Artegna.

Unica data: martedì 20 novembre,[img_assist|nid=10949|title=|desc=|link=none|align=right|width=640|height=410] ore 20:45. Il teatro mons. Lavaroni di Artegna, a pochi chilometri da Udine, è ormai pieno. Nuova scena e Arena del sole – Teatro stabile di Bologna presentano i due tempi scritti col cuore da Vittorio Franceschi nel 2002. Di questa pièce pluripremiata (premio Enrico Maria Salerno 2004, Eti-Gli olimpici del teatro 2006 e Ubu Nuovo testo italiano 2006) ne cura la regia Alessandro D’Alatri, al suo debutto come regista teatrale, dopo aver diretto film come Senza pelle, Casomai e La febbre.

Vittorio Franceschi è Giovanni detto Vanni, un anziano professore e ricercatore di botanica in pensione. Vive con la sorella Rosa nella vecchia casa di famiglia. Perfetta nei panni di una donna concreta, semplice e piena di buonsenso, Laura Curino interpreta con disinvoltura il personaggio della sorella: intelligente anche se sbaglia sempre i congiuntivi. Pur litigando spesso, i due si vogliono molto bene. La poetica scenografia di Matteo Soltanto ricrea nell’appartamento dei due fratelli quel mondo vegetale di cui si sono nutriti i loro cuori e che costituisce la materia dei loro ricordi. Libri, pareti, scaffali, mobili, tutto sembra pietrificato. Un violino, prezioso per Vanni, è incastonato nella parete vicino al letto. L’unica fonte di vita (che alla fine darà la morte) è la pianta scoperta dal protagonista in uno dei suoi viaggi, da lui battezzata con tre nomi: Daphne (nome rubato alla mitologia che rimanda alla ninfa che fece innamorare Apollo) Giovannina (come il nome dello scopritore) del Borneo (il luogo dove l’ha trovata). La regia di Alessandro D’Alatri, presente ma non eccessivamente invadente, funziona, anche in certe scene cinematografiche come la proiezione di una soggettiva di un temporale su un’intera parete. Convince anche Laura Gabin che interpreta la bella Sibilla, il terzo personaggio che ruota intorno a Vanni. E’ una sua ex allieva che dopo la laurea lo ha seguito in uno dei suoi frequenti viaggi di ricerca. Dopo si capirà che la Thailandia non è stata solo la destinazione di un viaggio di studio, ma anche il luogo magico di un amore di cui tutti e due sono stati trafitti. Un amore profondo che Vanni si rifiuterà di concretizzare per paura forse di amare una donna molto più giovane di lui. Il burbero botanico che ha trascorso la vita a classificare piante, si lascia sfuggire il senso vero dell’esistenza e il mistero degli affetti. Si difende con l’arma delle sue pungenti e ironiche battute e delle sue citazioni. Ma ora si ritrova su una sedia a rotelle a causa di una malattia degenerativa progressivamente invalidante che lo costringerà a morire lentamente. Per questo esprime il suo ultimo desiderio proprio a Sibilla. Nelle foglie del fusto di Daphne Giovannina del Borneo, probabilmente la più grande scoperta di botanica degli ultimi tempi (da Nobel!), c’è un veleno capace di togliere dolcemente la vita. Saranno quindi la pianta Giovannina e Sibilla a salvarlo dall’agonia lunga e terribile.

Il sorriso di Daphne è certo una riflessione sull’eutanasia, ma è soprattutto uno spettacolo sui sentimenti e sull’amore nelle sue infinite e molteplici sfumature. L’autore tratta questo delicato e attuale tema con molto pudore, affrontando una problematica sentita da tutti e sulla quale oggi ci troviamo a riflettere e a dover prendere decisioni.

Pochi sono gli spettacoli capaci di parlare al cuore e di far ridere allo stesso tempo. Il sorriso di Daphne è uno di questi. Teatro come riflessione e presa di coscienza, ma anche divertimento intelligente.

Prima di andare in scena abbiamo scambiato alcune battute con Vittorio Franceschi:

Connessomagazine.it: - Come le è venuta in mente questa storia?

Vittorio Franceschi: - Sai, sono temi che ti porti dentro, sono nell’aria, in realtà sono sempre lì a disposizione. Un giorno scatta qualcosa, un impulso nel partire…e inizi a lavorare. L’idea, intesa come ispirazione, viene soprattutto lavorando e non di certo camminando guardando le foglie degli alberi. Io, comunque, il testo l’ho scritto nel 2002, prima che scoppiasse il caso Welby.

Connessomagazine.it: - Lei viene dal teatro politico. Com’è avvenuta la parabola verso un teatro poetico, se così si può chiamarlo?

Vittorio Franceschi: - E’ stato un passaggio naturale…anche questo spettacolo se vuoi è politico. Io penso che il teatro abbia sempre affrontato problemi eterni, sono quelli che sempre prendono forma…si va in quella direzione, del teatro che è arte e metafora. La ricerca di questa sintesi si sposa a un sentimento che percorre i miei lavori: quel desiderio di far riflettere. Il pubblico viene a cercare proprio questo miracolo. Il teatro nel suo piccolo può ancora farlo, può produrre pensiero e anche poesia. Cosa che il cinema non riesce più a fare: è troppo asservito all’industria.

Sono quasi le 20 e 45 e siamo ancora a parlare: bisogna interrompere. Teneramente mi confessa che da piccolo voleva fare l’artista e che bisogna rimanere fedeli ai sogni della propria giovinezza, non bisogna tradirli, cedendo alle lusinghe dei tradimenti che ogni giorno ci infiocchettano. Le luci si spengono e Vittorio Franceschi si avvia verso il palcoscenico.