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Neri Marcorè a Teatro Contatto fa rivivere a tutto tondo il mondo di G.

Sipario

[img_assist|nid=17346|title=|desc=|link=none|align=left|width=130|height=130]UDINE - Chi è Neri Marcorè? Abbiamo imparato a conoscerlo sotto forma di presentatore dall’aria compassata, quasi strascicata, e come attore di cinema trattenuto e sensibile; ora non possiamo non rendergli omaggio come prezioso attore di teatro, raffinato compositore di molteplici personaggi e situazioni, che travalicano l’assurdo per consolidarsi nella verità del vissuto quotidiano.

I testi creati da Giorgio Gaber e Sandro Luporini (nella vita anche pittore realista-esistenziale, ndr.) sono uno straordinario substrato sul quale basta innestare pastelli neutri e lasciar esprimere la propria sensibilità; sono vettori che ti prendono pelle ed anima per sbatterti in un mondo apparentemente parallelo, visionario, che si rivela essere lo stesso nel quale ci immergiamo ogni giorno. E questo Un certo signor G ce ne dà una preziosa testimonianza.

Il teatro-canzone di Gaber-Luporini affidato alla coppia Marcorè-Gallione, attore e regista, è immerso in una scenografia vagamente surrealista nel suo deformare prospettive e logiche comuni: una grande stanza nera che si sviluppa in una profondità sghemba, provvista di finestre e porte, chiuse da fogli di giornale incollati tra loro (e che si addobba, di volta in volta, di quadri, ritagli e un topo gigante). All’interno due pianiste (Silvia Cucchi, la migliore)[img_assist|nid=17347|title=|desc=|link=none|align=right|width=640|height=427] e Neri che, di volta in volta, ci illustra i pensieri gaberiani, tra un breve monologo riflessivo e una canzone. Ascoltiamo così opere tratte dall’intero, immenso, repertorio gaberiano: da Il signor G nasce (1970), che prende in giro il carosello parentale attorno alla figura di un nuovo nascituro, a Non mi sento italiano (2003), che mette in evidenza con estrema lucidità, e la semplicità del genio, le ambiguità di un Paese e di un popolo, passando per Il narciso (sul lato egoistico dell’amore), Il dilemma, L’odore, per citarne solo alcune. Tra le tante finestre sul mondo che lo spettacolo è riuscito a riassumere, voglio ricordare l’altissimo episodio del sogno nel quale Marcorè/Signor G si sveglia da un incubo e non ne conosce il finale. Cerca allora di riaddormentarsi e il sogno riprende: ma questa volta a parti invertite e la comi-tragedia ha inizio! Un momento di pura filosofia esistenziale, che tratteggia incisivamente la contraddizione dell’essere uomini, sempre in bilico tra bontà a basso costo e cattiveria.

Ci troviamo di fronte ad una messinscena perfettamente in sintonia con lo spirito del suo mentore, che ci affascina per novanta minuti con la sua immediatezza e una totale brillantezza di contenuti. Gaber e Luporini sono poeti dell’animo umano, che non perdono mai di vista il terreno in cui l’uomo stesso si muove: sogno e realtà vanno sempre a braccetto. Dice il regista: […] è un’esplorazione […] comicamente impotente sul senso della propria vita, sempre sfiorata dal pericolo dell’imbecillità e del qualunquismo. E ancora: […] un’opera da considerare un’invenzione senza tempo di scadenza, un classico moderno che […] si interroga sui destini dell’uomo moderno, in bilico tra utopia, impotenza, razzismo, amore, consumismo, paura e sogno.

Uno spettacolo che scivola via, ma che come una lacrima ti solca dentro e non si scorda più. Uno spettacolo in cui molte pause aquistano il significato delle parole. Perché Gaber, sotto quell’aspetto massiccio e bonario e quelle canzoni così orecchiabili, non parla di trottolini amorosi, ma ti fa girar come fossi una bambola.