[img_assist|nid=11248|title=|desc=|link=none|align=left|width=130|height=130]Con Paranoid Park, Gus van Sant ci regala il terzo capitolo di un'ipotetica trilogia sul profondo dolore del nostro moderno vivere. Alex è un ragazzo introverso con la passione per lo skateboard che fa le sue esperienze fluttuando tra il reale e un immaginario in tinte bianco-grigie.
Una sera, allo skate-park del titolo, conosce un ragazzo più grande che lo coinvolge in un gioco piacevolmente anarchico: saltare su un treno in corsa nella vicina stazione ferroviaria. Ciò che non è nulla più che un’innocua bravata adolescenziale si trasformerà in un incubo.
L’azione viene significativamente ambientata in una fantomatica Portland: nome di molte cittadine degli Stati Uniti, che si accomunano in un medio anonimato, nelle cui stradine moltissime storie nascono e muoiono senza gli[img_assist|nid=11246|title=|desc=|link=none|align=right|width=640|height=427] onori della cronaca, né tanto meno della Storia. Quella Portland così indefinita, simbolo di una città qualunque, è una delle infinite periferie del mondo occidentalizzato dove giovani come tanti trascorrono amene giornate, nella speranza che il tempo passi con meno preoccupazioni possibili.
Un film disarmante nella sua semplicità (oltre che estremamente delicato e rispettoso di tutti i personaggi) che diventa profondità tra le pieghe del quotidiano; un quotidiano che appartiene a tutti e che quindi si dimostra ancor più comune, universale, prezioso, inquietante. Van Sant non vuole prendere le parti di qualcuno, né legarci ad uno sviluppo particolare (quanto sarebbe stato facile, comodo, scivolare in un giallo di genere?); in questo caso ci mostra come la vera protagonista sia la vita, mentre il nostro ruolo è quello di subirne semplicemente (spesso troppo passivamente?) gli influssi, ingabbiati in un gioco di cui non conosciamo neanche le regole.
Pellicola minimal com’è nello stile dell’autore che, seppur fortemente presente e operante scelte stilistiche ben precise, riesce a farsi dimenticare per diventare lente d’ingrandimento della storia narrata; salti temporali ad incastro, telecamera a mano e pellicola sgranata - stile filmino amatoriale - ci sottolineano la mutevolezza, l’impalpabilità, la fragilità emotiva e culturale del mondo giovanile, vittima di un corso generazionale che ha pensato più alla rottura dell’impianto tradizionale impostato dai padri, piuttosto che a gettare basi solide per la costruzione di un saldo avvenire (oltre al sogno utopico) ai propri figli. I grandi sono marginali agli avvenimenti (genitori, [img_assist|nid=11247|title=|desc=|link=none|align=left|width=640|height=412]professori, poliziotti: tutti assenti, poco incisivi/decisisvi o immaturi), ma sono più che presenti nel risultante dei loro figli/allievi e nella loro educazione, frutto di un’immaturità che, senza colpe apparenti, essi dovranno imparare a sopportare e a sconfiggere. Senza figure esemplari che li accompagnino in un’ottimale formazione caratteriale, gli adolescenti di oggi non riescono a riscattarsi nella creatività e nella voglia di conquistare un posto nel mondo, ma si caricano di pesanti fragilità e complessi ereditari. Fardelli che spesso rimangono latenti nell’animo e producono contrasti non costruttivi -se non distruttivi- sia contro il mondo adulto (incapace di ascoltare con serietà e di aiutare con abnegazione), sia con il loro intimo interiore.
Bellissimi i dettagli, i dialoghi rari ma efficacissimi, la descrizione del rapporto adolescenziale tra amore e amicizia (con la differenza tra ragazzo e ragazza) e le sottolineature di una colonna sonora che spazia dalle tinte rock alla magia delle note create da Rota per l'universo immaginifico Felliniano.